Il dissesto idrogeologico in Italia

Italia, come noto, è un Paese a elevato rischio idrogeologico. Lo confermano i sempre più puntuali dati di aggiornamento forniti dall’Ispra attraverso la piattaforma sul dissesto idrogeologico denominata idroGEO, da cui si evince come 1,3 milioni di persone vivano in aree definite a elevato rischio di frane e smottamenti e oltre 6,8 milioni di persone siano a rischio, almeno medio, di alluvione. Numeri che riguardano il 3,9% degli edifici (ossia 565mila) esposti a elevato rischio di frane e il 4,3% (623mila edifici) esposti ad elevato rischio alluvione; vanno aggiunti anche oltre 84.000 edifici industriali e commerciali in zone a elevato rischio di frane (l’1,8% di questa tipologia di edifici), mentre sono oltre 225mila (il 4,7%) le imprese in aree a elevato rischio alluvione.

Non c’è una porzione del territorio italiano che non debba convivere con la fragilità intrinseca del territorio stesso per quanto
riguarda il rischio da frane o da alluvioni, ma si arriva a situazioni come quelle della Calabria dove il 17,1% del territorio regionale è in uno scenario di pericolosità elevata per le alluvioni e in Emilia-Romagna lo è l’11,6%
del territorio.

Sono 7.423 i comuni con almeno un‘area classificata a elevato rischio da frane e alluvioni. Si tratta del 93,9% dei comuni
italiani e del 18,4% del territorio nazionale. Fenomeni del tutto naturali che sono stati
amplificati a dismisura negli ultimi decenni a causa di due fattori specifici: il consumo di suolo e il cambiamento climatico.
Entrambi i fattori vedono l’attività antropica come responsabile. Nel primo caso perché si è costruito troppo e troppo spesso in zone non adatte, pericolose, come le anse dei fiumi, ai piedi delle scarpate, lungo versanti scoscesi o in aree di pianura
alluvionale. Nel secondo caso perché le emissioni in atmosfera che hanno accelerato il cambiamento climatico stanno causando, come conseguenza diretta, uno squilibrio nella distribuzione delle piogge durante l’anno, in cui a prolungati mesi di siccità si alternano poche ore di violente precipitazioni che il territorio – cementificato e impermeabilizzato – non è più in grado di regolare.

Di fronte a questo scenario negli ultimi decenni si è cercato di correre ai ripari,
sono stati stanziati fondi, progettate opere, varate leggi e sono state fatte campagne di informazione e sensibilizzazione per arginare il problema, ma sempre in maniera discontinua e disomogenea e senza una
chiara visione degli obiettivi e delle priorità.

Tant’è che ancora oggi i fenomeni estremi causano allagamenti, smottamenti, danni
alle infrastrutture, – cosa ancor più grave – vittime nei vari territori, esattamente come succedeva 30 o 50 anni fa, ma con l’aggravante di essere sempre più frequenti e, come visto purtroppo a maggio in Emilia-Romagna, su porzioni di territorio più ampie.

Secondo quanto riportato dal sito del Rendis – Repertorio Nazionale degli interventi per la Difesa del Suolo – a cura di Ispra, per la prevenzione del rischio, dal 1999 al 2022, sono stati ultimati 7.993 lavori per un importo di 4,47 miliardi di euro, su un
totale di 25.101 interventi complessivi di difesa del suolo, dal valore totale di 17,17 miliardi. Nonostante le risorse spese in prevenzione e le opere terminate, i numeri
dicono che il rischio idrogeologico in Italia è aumentato nel corso degli anni.
Le opere sono quindi risultate meno efficaci di quanto si pensasse perché nel frattempo le condizioni a contorno sono peggiorate (comedetto, a causa dell’aumento in quantità e frequenza degli eventi estremi, dal sempre crescente consumo di suolo e di opere di difesa invasive e spesso inefficaci). Ma soprattutto perché è mancata una governance che avesse una visione più ampia di pianificazione, controllo e conoscenza del territorio.

Questo ruolo deve essere dato alle autorità di distretto, in stretta sinergia con il Ministero dell’Ambiente, che devono essere messe nelle condizioni di poter avere personale, risorse economiche e “autorità” decisionale sovraordinata rispetto agli altri enti e amministrazioni locali (comuni, regioni, consorzi, gestori del SII ad esempio) per poter garantire quegli aspetti di visone complessiva di gestione del territorio e della risorsa idrica precedentemente riportati.

Fonte: Rapporto città clima 2023 

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